Esce in Inghilterra in questi giorni un saggio scritto dal premio Nobel  Amartya Sen insieme all’economista belga Jean Drèze, si intitola An uncertain glory, India and its contradictions. L’india in questi ultimi anni è cresciuta enormemente, circa l’8% l’anno negli ultimi 20 anni, di questa crescita hanno beneficiato enormemente i ceti medi, il 20% della popolazione. Una massa di indigenti non ha visto migliorare per nulla il proprio stato, metà delle famiglie indiane non ha accesso ai servizi essenziali, come i gabinetti, milioni di persone continuano a vivere nelle condizioni di povertà dei tempi dell’indipendenza, anni ‘50. Eppure l’India è un paese democratico, la partecipazione al voto degli aventi diritto è altissima, i poveri hanno un voto a testa e sono tantissimi, possono quindi influenzare le scelte del governo, eppure i successi nella crescita economica non si sono tradotti in politiche inclusive che migliorassero le condizioni economiche e sociali della base della popolazione. E’ che forse la democrazia non è efficace nell’eliminare la povertà? Per i due autori non c’entra la democrazia, ma il suo funzionamento. In India la popolazione non partecipa al dibattito politico, non ha voce nel dibattito pubblico e i suoi problemi non sono di rilievo per i media e per la classe politica. Le centinaia di milioni di poveri indiani sono al di sotto della soglia di consapevolezza necessaria a uscire dalla miseria attraverso il voto e l’azione politica democratica.  Queste considerazioni mi portano a pensare anche all’Italia, nel nostro paese democratico il malgoverno delle classi dirigenti è tollerato dalla maggioranza della popolazione che sopporta, ma non fa né il proprio bene, né quello del paese.” La pazienza è una forma minore di disperazione  travestita da virtù” scriveva Bierce nel 1906. Quando la sopportazione quotidiana,che talvolta esplode in rabbia violenta e distruttiva, sia negativa per l’India lo spiegano Sen e Drèze, e per l’Italia?